Vademecum per un’inversione di tendenza
Bisogna riconoscere che il pensiero economico critico trova crescente espressione nel mondo cattolico, piuttosto che in quello laico o di sinistra. Si respira una certa aria di libertà e di anticonformismo in parte di questo mondo, di cui forse l’ultima enciclica papale costituisce la risultante oltre che lo stimolo. In questo ambito si tenta di innovare e rompere con schemi dominanti, magari senza centrare sempre l’obiettivo, ma dando, per altro, la misura delle difficoltà ad arginare in profondità l’attuale capitalismo totale. In questo filone di critica all’economia si può apprezzare il lavoro del francese Gael Giraud, Transizione ecologica (Emi, pp. 288, euro 16, prefazione di Mauro Magatti), un ex operatore finanziario diventato gesuita.
L’autore propone una «lettura necessariamente schierata» per «liberarsi dal vitello d’oro» costituito da quel mercato divenuto nuova «divinità anonima» e sottrarsi alla «violenza finanziaria», inventandosi inediti modi di fare società tesi a creare «nuovi legami sociali». Ne deriva una polemica verso meccanismi e istituti economici quali la Bce e l’euro. Ciò che viene messo in evidenza è la connessione tra problemi economici e ambientali, proponendo un grande piano finanziario straordinario per la sopravvivenza del pianeta stesso. L’ecosistema si salva cambiando di segno persino alla finanza. Giraud propone che la Bce stampi moneta per affrontare i dilemmi ecologici piuttosto che per soddisfare i brutali istinti del sistema finanziario. Propone di togliere alle banche il potere di governare la quantità di moneta in circolo per ridarlo a un’autorità con un preciso mandato democratico. All’utopia della società dei proprietari sostituisce quella della transizione ecologica. Una transizione costosa, in quanto si tratta di reindustrializzare le nostre economie, regionalizzare il commercio globale, porre fine all’eccessiva specializzazione agricola. Ridurre i consumi di energia e al contempo aumentare le spese per la salvezza del pianeta.
Infine Giraud prova a ipotizzare una pars costruens fatta di commons che si incuneano tra privato e pubblico, mettendo in evidenza i disastri del primo e i limiti del secondo. Qui il discorso si complica, i beni hanno natura diversa e necessitano di status differenti in base al ruolo esclusivo o rivale come per molti beni privati oppure non rivale e non esclusivo come per quelli pubblici. Esistono poi beni ibridi, il cui confine tra pubblico e privato si confonde. La moneta stessa dovrebbe passare da privata a comune, non rispondendo più alla pura funzione di asset in cui la incasellano le banche, ma diventando istituto atto alla circolazione ancorata alla realtà, seppur dilazionata nel tempo.
Il rischio, sottolinea l’autore, è quello di creare un meccanismo insostenibile, dove la produzione di ricchezza e di debito pubblico possono non corrispondere alla quantità di moneta circolante, creando le basi per un crack. Viene, dunque, indicata una strada, ma non risolti tutti i problemi. Inoltre l’approccio sul comune risulta credibile come prospettiva per sottrarsi ai dilemmi emersi nel pubblico, ma va messo a fuoco rispetto ai problemi che solleva. Quale mercato dovrebbe esistere? E quale sfera pubblica dovrebbe restare? Come potrebbe intersecarsi e/o favorire il comune? Infine comune significa maggiore territorialità e autogoverno, ma non può essere rimosso il dato che economia ed ecologia necessitano di una dose di centralità e programmazione per coniugare efficacemente locale e globale, prosperità e ambiente. Tutti problemi aperti. Meno male che c’è chi li solleva.